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19 Marzo 2024

MSF: A Roma una serata per la Rdc, e dal Nord Kivu il diario di Giulia, giovane ostetrica

ROMA, 14 GENNAIO – I volontari del Gruppo di Roma di Medici Senza Frontiere MSF hanno organizzato per oggi una serata in collaborazione con l’Institut Français Centre Saint-Louis di Roma, dedicata alla Repubblica Democratica del Congo, per conoscere più a fondo il paese, non solo attraverso il cinema ma anche grazie alla testimonianza diretta di chi ha lavorato in questo contesto profondamente instabile. Il film è ‘Maman Colonelle’ di Dieudo Hamadi, Congo Kinshasa (RDC) 2017. Sono previsti poi gli intervento di François Dumont, Direttore del Dipartimento di Comunicazione & Advocacy di MSF Italia e di Patrizio Carnevale, ostetrico presso l’ospedale Fatebenefratelli di Roma e operatore umanitario di MSF. François è stato responsabile della comunicazione durante le emergenze che l’organizzazione ha affrontato in diversi paesi, tra cui Perù, Etiopia, Gaza, Repubblica Democratica del Congo, Haiti, Kirghizistan, Libia, Filippine e durante l’epidemia di Ebola in Liberia.

Patrizio è stato con Medici Senza Frontiere in Burundi, Repubblica Centrafricana, Cambogia e più volte in Repubblica Democratica del Congo

In occasione della serata di Roma, pubblichiamo il diario di una delle ostetriche di MSF che proprio nella RDC lavora e da cui scrive questa testimonianza:

”Si parte per l’Africa pensando a tante cose – scrive –  alcune sono come te le immaginavi (o almeno in parte), altre sono così inaspettate da donarti una gioia inimmaginabile. Mi chiamo Giulia e sono un’ostetrica. Lavorare per Medici Senza Frontiere è sempre stato un mio sogno sin da piccola, avevo solo 10 anni quando decisi che questo sarebbe stato il mio lavoro da grande!

Vi scrivo dalla Repubblica Democratica del Congo, nella provincia del Nord Kivu, nello specifico dal territorio di Walikale.

È la mia prima missione e, prima di partire, il mio zaino è carico di emozioni, paure, dubbi, felicità. Arrivo a destinazione dopo tre giorni di viaggio. Caldo afoso, strade deserte ravvivate dal verde intenso della selva, tipico del paesaggio tropicale congolese. Sono venuti a prendermi con la jeep, attraversiamo vari piccoli villaggi fatti di piccole case, realizzate con canne di bambù e fango, circondate dalle voci squillanti dei bambini che chiamano “muzungu” (uomo bianco in Swahili) al mio arrivo.

Il mio ruolo qui è midwife manager activity. Che vuol dire? Tante cose! Sono responsabile della salute riproduttiva della donna, in ospedale e nelle cliniche mobili. Il mio lavoro è un lavoro di équipe, infatti collaboro col team di ostetriche e medici, in ospedale, con il team di infermieri e con il team che si occupa di promozione della salute per le campagne di sensibilizzazione.

Un lavoro fondamentale
Le donne in gravidanza e i bambini sotto i 5 anni sono i più vulnerabili, deboli ed esposti a rischi. Qui a Walikale le cause principali di morte sono la malaria, la polmonite e la malnutrizione. Per quanto riguarda la mortalità materna, le cause principali si sviluppano durante il travaglio, come la rottura d’utero, e durante il parto e post-partum con le gravi emorragie.
Del tutto nuova per me invece è la medicina indigena o tradizionale, il cui uso, talvolta, può portare a gravi complicazioni sino alla morte.

Ne è un esempio la Mubande, una polvere derivata da una pianta comune che cresce qui nella foresta congolese. Le donne in gravidanza hanno l’usanza di berla col tè sostenendo che favorisca l’innesco del travaglio di parto. L’effetto talvolta è devastante.

La Mubande infatti può mettere a rischio la vita della mamma e del feto. Nonostante il nostro lavoro di sensibilizzazione sugli effetti negativi che la medicina tradizionale può portare, non è certo facile cambiare un’abitudine così radicata.
Sin dal mio arrivo qui a Walikale ho potuto constatare con i miei occhi le terribili conseguenze che porta l’assunzione di questi prodotti. La rottura uterina è una di queste. In Europa non è così frequente, qui è quasi all’ordine del giorno. Non sempre riusciamo a salvare la madre o il bambino, talvolta non ci sono i mezzi o è già troppo tardi, altre volte non ci sono spiegazioni ed è lì che ci si sente davvero impotenti e frustrati.

Momenti concitati in sala parto
Si parte in missione con la voglia incondizionata di salvare tutti, con un’energia mai avuta prima e improvvisamente tutte le nostre aspettative precipitano.

Basta però un “piccolo” evento per farti risentire carico e positivo più che mai. E questo che vi sto per raccontare ne è un chiaro esempio.

È un lunedì mattina e come sempre faccio il giro di controllo in reparto con medici e infermieri per assicurarmi che tutto vada bene. Improvvisamente Seraphin, l’ostetrico di turno, mi chiama con urgenza.

In sala parto ci sono tante persone e tanta confusione, il mio battito cardiaco inizia ad accelerare. Il mio sguardo va diretto al lettino ginecologico sul quale c’è una giovane donna che in swahili chiede aiuto, lamentandosi per il forte dolore.
La mia attenzione si concentra subito alla bizzarra forma del suo ventre. Non credendo ai miei occhi, vedo il cosiddetto “anello di Bandl”, segno evidente di rottura uterina. Fino a quel momento l’avevo visto solo sui libri dell’università.
Allerto tutta l’équipe per un taglio cesareo d’urgenza. Gli operatori del blocco operatorio, il medico, gli infermieri, ci siamo tutti. Io e Seraphin ci precipitiamo in sala operatoria. L’adrenalina scorre nelle mie vene, il respiro diventa veloce e corto. Il medico inizia l’intervento e mi informa che il bambino è già nella cavità addominale.
Io e Seraphin siamo pronti per la rianimazione neonatale. Quando il bambino nasce purtroppo non respira, non piange, è cianotico e atonico, ma la frequenza cardiaca è presente. Inizio immediatamente a ventilare i suoi piccoli polmoni.
1..2..3..4..5..30, passa un minuto e ancora nessuna respirazione spontanea.
Il medico intanto mi avverte che l’utero della mamma è troppo danneggiato e decidiamo per l’isterectomia (l’estrazione dell’utero). Non è una decisione facile, specialmente qui in Africa dove una donna senza utero, quindi impossibilitata a procreare, può diventare vittima di discriminazione e stigmatizzazione.
Nel frattempo io e Seraphin continuiamo con la rianimazione, sono passati ormai 15 minuti ma non ci fermiamo, continuiamo a ventilare. Guardo l’orologio e il tempo scorre veloce.

Il protocollo è chiaro: dopo 20 minuti, massimo 30 di ventilazione senza respirazione spontanea, bisogna dichiarare il decesso del feto. Non ci arrendiamo, e continuiamo. Guardo il bambino, osservo il suo petto… ti prego respira, ti prego piangi, sei forte.

Al ventesimo minuto, questa meravigliosa creatura apre gli occhi al cielo, allarga le braccia e piange, piange vigorosamente. Mi scorrono due lacrime sul viso, guardo Seraphin e gli dico “Ce l’abbiamo fatta! Respira!”. Da quel momento felicità e gioia invadono la sala parto.
Abbraccio Seraphin e lo ringrazio. Grazie, grazie a tutti, grazie per avermi accolta nella vostra casa, dandomi l’opportunità di vivere emozioni incredibili di giorno in giorno. È stata una giornata che mi resterà nella memoria e che terrò per sempre nel mio cuore.

Lo stato d’animo qui in Africa è altalenante, esattamente come il susseguirsi degli eventi. Si passa da momenti di tristezza e rabbia per aver perso dei bambini, a momenti di gioia immensa per averne salvati altrettanti. Quello che questa esperienza mi sta insegnando è tanto, è qualcosa di più che va oltre la carriera professionale, è un’esperienza di vita. Mai come qui, mi sento così vicina all’essenza dell’essere umano”.

(@novellatop, 14 gennaio  2019)

Maria Novella Topi
Maria Novella Topihttps://www.onuitalia.com
Maria Novella Topi è stata a lungo capo servizio della Redazione Esteri dell'Ansa. Tra le sue missioni l'Albania (di cui ha seguito per l'agenzia la caduta del comunismo e le successive rivolte), l'Iraq e la Libia. Ha lavorato per lunghi periodi nell'ufficio di corrispondenza di Parigi. Collabora da Roma a OnuItalia.

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